IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta al n. 17512 r.g. 1989 tra Coppola Maria e la S.a.s. Fiera S.p.a. Boffa, S.p.a. Cora e Boffa Corrado. Con ricorso al pretore di Casoria del 13 marzo 1986 Maria Coppola impugnava il licenziamento intimatole in data 25 marzo 1985 dalla S.a.s. Fiera, che aveva posto a fondamento di esso la circostanza che la "Magneti Marelli" aveva risolto il rapporto di agenzia intercorso con la citata societa'. A sostegno dell'impugnativa deduceva che il licenziamento era affetto da nullita' assoluta ai sensi dell'art. 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, in quanto intimato nel periodo di interdizione da esso previsto e che in ogni caso lo stesso era illegittimo per mancanza di giusta causa o giustificato motivo in quanto il suddetto mandato di agenzia era stato trasferito dalla S.a.s. Fiera alla S.p.a. Cora, che insieme alla S.p.a. Boffa & C. facevano parte di un unico gruppo imprenditoriale facente capo a Corrado Boffa. Sulla base di tali premesse chiedeva che, dichiarata la nullita' ovvero, in subordine, la illegittimita' del licenziamento si ordinasse la sua reintegrazione nel posto di lavoro, con ogni altra conseguenza di carattere risarcitorio in danno delle convenute. Il pretore adito, con sentenza del 10 marzo 1989, dopo aver escluso che nella specie ricorresse una ipotesi di cessazione di attivita' aziendale prevista dall'art. 2 lett. b) della legge n. 1204/1971, dichiarava inefficace il licenziamento intimato alla Coppola e condannava la S.a.s Fiera a corrisponderle le retribuzioni dovutele sino al compimento di un anno di eta' del bambino; rigettava le domande proposte nei confronti degli altri convenuti. Con ricorso del 29 settembre 1989 proponeva appello la Coppola perche' venisse dichiarata la nullita' o quanto meno la illegittimita' del licenziamento. Costituitosi in giudizio, gli appellati chiedevano il rigetto dell'appello e la S.a.s. Fiera a sua volta spiegava appello incidentale affinche' venisse dichiarata la legittimita' del licenziamento. Osserva il collegio che deve essere preliminarmente esaminato l'appello incidentale proposto dalla S.a.s. Fiera, la quale assume che il pretore avrebbe dovuto ritenere legittimo il licenziamento da essa intimato in presenza di una delle ipotesi che escludono il divieto in via generale posto a tutela delle lavoratrici madri della legge 30 dicembre 1971, n. 1204. Osserva al riguardo la societa' che essa aveva infatti proceduto al licenziamento di tutti i suoi dipendenti, cessando di svolgere pertanto qualsiasi attivita' produttiva e provvedendo in via esclusiva allo smaltimento delle giacenze ai fini contabili-amministrativi a mezzo di altra impresa, dopo che la "Magneti Marelli" le aveva revocato il mandato di agenzia, che aveva per un anno conferito ex novo alla Cora. Ed insiste in proposito sull'ammissione della prova per testi in primo grado articolata anche in ordine a tali circostanze: l'appello e' infondato. Come e' stato esattamente gia' rilevato dal primo giudice, nel corso dell'interrogatorio da lui reso il legale rappresentante delle societa' Fiera e Boffa ebbe a precisare che, dopo il licenziamento della Coppola, la prima di tali imprese aveva continuato ad esistere, sia pure al solo fine di vendere le scorte giacenti e di chiudere le partite amministrative in corso; ed aggiunse che essa era ancora in vita, anche se in liquidazione. Ora, stante il carattere eccezionale delle ipotesi derogatorie previste dall'art. 2, comma 3, della legge n. 1204/1971, deve ritenersi, con specifico riferimento al caso sub b, che in tanto non trovi applicazione il divieto di recesso nei confronti della lavoratrice madre in quanto l'attivita' dell'azienda cui essa sia addetta sia totalmente cessata, ovvero non sia comunque possibile utilizzare altrimenti le sue prestazioni: in caso contrario, invero, la disposizione si presterebbe ad essere agevolmente elusa e, in presenza di mere sospensioni, trasformazioni o riduzioni dell'attivita' lavorativa, il datore di lavoro avrebbe l'occasione di risolvere i rapporti intercorrenti con quei soggetti "deboli" in favore dei quali il legislatore del 1971 ha inteso apprestare una efficace tutela (in termini, v. Cass. 16 novembre 1985, n. 5647). Ne consegue che, risultando dalle dichiarazioni del rappresentante della S.a.s. Fiera che all'epoca del recesso intimato alla ricorrente l'attivita' esercitata dalla sua impresa non era totalmente cessata ma proseguiva sia pure in forma limitata (ne' - come rilevato dal pretore - era del resto ipotizzabile l'immediato smaltimento di cospicue scorte nel magazzino della filiale napoletana della Magneti Marelli, certamente di dimensioni non modeste) e non avendo d'altra parte la societa' predetta chiesto di dimostrare che la Coppola, la quale svolgeva mansioni impiegatizie, non fosse utilizzabile nelle altre attivita' protrattesi pur dopo la revoca del mandato di agenzia, deve escludersi la sussistenza della ipotesi prevista dalla lett. b) del citato art. 2. Va a questo punto preso in esame il primo motivo dell'appello principale, con il quale la Coppola, richiamandosi ai numerosi precedenti giurisprudenziali (soprattutto di merito) e ad altrettanto numerosi contributi dottrinari, sostiene che erroneamente il pretore ha affermato che il licenziamento disposto in violazione del divieto posto dalla legge n. 1204/1971 sia improduttivo di effetti limitatamente al periodo nel quale tale divieto e' operativo e che esso deve viceversa ritenersi affetto da nullita' assoluta (con l'ovvia conseguenza che la societa' appellante dovrebbero essere condannate in suo favore sia a ripristinare il rapporto di lavoro illegittimamente risolto sia a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla data del recesso a quella dell'effettiva riassunzione in servizio): ritiene il tribunale che, a fronte della tesi sostenuta dalla ricorrente, vada di ufficio sollevata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge n. 1204/1971 in relazione agli artt. 37, comma primo, e 3, della Costituzione. Com'e' ampiamente noto, nell'interpretazione di tale disposizione la Corte di cassazione, con giurisprudenza assolutamente prevalente (vedi per tutte, cass. 20 ottobre 1987, n. 7747, in Foro it. 1988, I, 441, ed ivi richiami di precedenti analoghi), confermata anche di recente (cfr. Cass. 30 maggio 1989 n. 2167), ritiene che il limite temporale che l'art. 2 citato pone al previsto divieto di licenziamento delle lavoratrici madri "Le lavoratrici madri non possono essere licenziate dall'inizio del periodo di gestazione fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro previsto dall'art. 4 della presente legge, nonche' fino al compimento di un anno di eta' del bambino) comporta che il licenziamento, intimato in violazione del divieto, non sia affetto da nullita' insanabile ma soltanto improduttivo di effetti, limitatamente al periodo nel quale il divieto stesso opera cioe' fino al compimento di un anno di eta' del bambino. Tesi questa - condivisa dal pretore - che si fonda tra l'altro sul rilievo secondo cui essa sarebbe coerente con la ratio legis della disposizione in oggetto in quanto la "protezione" della maternita' - che la legge intende perseguire a tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti - e' realizzata dalla conservazione del posto di lavoro, in dipendenza dell'inefficacia temporanea del licenziamento durante il periodo di gravidanza e puerperio. Senonche' se con il primo comma dell'art. 37 il costituente ha inteso - come si e' in dottrina osservato - garantire alla donna lavoratrice il diritto ad essere madre, senza che la maternita' possa pregiudicare la sua posizione lavorativa; e se inoltre - come da altri si e' sottolineato - il riconoscimento del valore sociale della maternita' e', in quel precetto costituzionale, strettamente collegato al riconoscimento dell'eguaglianza della donna nel lavoro (nel senso che - puo' aggiungersi - le sue specifiche "funzioni" non possono e non devono costituire fattore di ostacolo alla sua emancipazione, che indubbiamente si realizza anche attraverso l'inserimento nel mondo produttivo), la conclusione ormai radicatasi nella giurisprudenza di legittimita', in ordine agli effetti derivanti dalla violazione del divieto posto dall'art. 2 citato, si rileva francamente inadeguata rispetto agli obiettivi voluti dall'art. 37; obiettivi che, peraltro, comunemente si ritiene siano stati perseguiti dal legislatore del 1971. Ove si voglia escludere in via assoluta, invero, l'eventualita' che la (mera) condizione di gravidanza possa rappresentare, per il datore di lavoro, l'occasione per procedere al licenziamento della lavoratrice e, a salvaguardia della sua dignita' ed in attuazione del ricordato principio di parita', si intenda coerentemente, quindi, sottrarre al recesso caduto nel periodo di interdizione ogni rilievo sul piano giuridico, non pare possa accedersi alla tesi dell'inefficacia temporanea del recesso stesso: non diversamente che in ogni altra ipotesi in cui sia violata una norma imperativa, di esso dovrebbe infatti dichiararsi la nullita', essendo questa, in realta', la sola sanzione idonea a privare tout court il datore di lavoro dell'esercizio di poteri che a quella particolare condizione della lavoratrice siano, al di la' delle sue intenzioni, oggettivamente connessi (ovvero - id est - che non possano fondarsi su una delle ipotesi previste dalle lettere a), b) e c) dell'art. 2). Poteri che gli saranno naturalmente restituiti, una volta cessato il periodo di interdizione, e che potranno estrinsecarsi, nel rispetto dei principi, attraverso il licenziamento ad nutum della dipendente (ove il rapporto non sia sorretto da stabilita' e fermo restando la possibilita', per la lavoratrice, di dimostrare la sussistenza di un motivo illecito) ovvero, nelle ipotesi disciplinate dalle leggi n. 604/1966 e n. 300/1970, in presenza di una delle cause tipizzate di recesso da esse contemplate. Si consideri per altro verso, poi, che - come del pari e' stato da piu' parti asserito - la garanzia del posto di lavoro, che in attuazione dell'art. 37 si intendeva assicurare alla lavoratrice madre, e' altresi' preordinata a consentire a costei di provvedere con la necessaria tranquillita' alla cura propria e del bambino, tranquillita' che sarebbe innegabilmente compromessa, con ogni prevedibile conseguenza sullo svolgimento fisiologico della gestazione e dell'allattamento, se la donna colpita dal licenziamento, pur illegittimo, dovesse prendere atto (non gia' della radicale nullita' di esso ma) del mero differimento, ad epoca piu' o meno lontana, della definitiva risoluzione del rapporto e della "debole" tutela in suo favore apprestata dall'ordinamento. Si' che anche sotto questo profilo, ove si condividesse l'interpretazione dell'art. 2 ormai affermatasi in giurisprudenza, si verrebbe ad attribuire alla lavoratrice madre una protezione non adeguata in quanto si finirebbe pur sempre per consentire che di fatto il recesso, pur intimato nel periodo di interdizione, comporti un pregiudizio in suo danno e proprio in relazione ai beni ed ai valori che l'art. 37 della Costituzione si propone di tutelare. Ne' puo' trascurarsi, infine, che il licenziamento intimato alla donna lavoratrice per causa di matrimonio, nel periodo di interdizione previsto dall'art. 1 della legge 9 gennaio 1963, n. 7, e' affetto indubbiamente da nullita': ora, poiche' questa norma persegue finalita' non diverse da quelle assegnate all'art. 2 della legge n. 1204/1971 (nel senso che entrambe si propongono di rimuovere, nel solco delineato dall'art. 37 della Costituzione, quei fattori di discriminazione che tradizionalmente penalizzano la donna lavoratrice e che impediscono si realizzi in suo favore un'effettiva parita' di lavoro rispetto al lavoratore, le cui vicende "personali" non incidono sulla sua condizione lavorativa), non trova adeguata giustificazione una diversificazione cosi' accentuata delle tutele. Ne' potrebbe al riguardo obiettarsi che, dopo l'emanazione delle leggi che hanno disciplinato il potere di recesso del datore di lavoro (n. 604/1966 e n. 300/1970), la tutela del posto di lavoro e' stata sensibilmente rafforzata in favore di tutti i prestatori, e quindi anche delle donne, sicche' la legge n. 1204/1971, che risale appunto ad epoca successiva, avrebbe introdotto una garanzia supplementare in favore delle lavoratrici madri: e' infatti evidente che, avendo il regime di stabilita' un'estensione limitata (almeno prima della legge 11 maggio 1990, n. 108), al di fuori delle aree "protette" - ed in una ipotesi del genere si verserebbe, a dire degli appellati, nella fattispecie - la lavoratrice madre continua a non disporre di altri strumenti di tutela diversi da quelli di cui all'art. 2 citato, ai quali soltanto vanno quindi affidati gli obiettivi perseguiti dall'art. 37 della Costituzione. Ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve quindi ritenersi non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 37, primo comma, e 3, della Costituzione la questione di costituzionalita' dell'art. 2 della legge n. 1204/1971 nella parte in cui stabilisce l'inefficacia temporanea del licenziamento intimato, nel periodo di interdizione, alla lavoratrice madre.